Perché il filtro anti-pubblicità di Google non è un filtro anti-pubblicità

Recentemente Google ha annunciato l’introduzione di un nuovo filtro che ha effetto sui risultati delle ricerche. Il filtro abbasserà la posizione di quei siti web che non mostrano in cima alle pagine il contenuto che dà risposta alla query dell’utente ma che costringono quest’ultimo a fare scroll per visualizzare quanto effettivamente di suo interesse.

A causa dei meccanismi tipici della comunicazione online (un mix micidiale di fonti poco chiare e condivisori che vanno sempre di fretta) il messaggio arrivato a diversi SEO è che il nuovo filtro colpisca i siti con troppa pubblicità e banner in cima alle pagine.

Questa è una semplificazione eccessiva della novità introdotta e vorrei spiegarvi perché questa interpretazione rischia di causare qualche danno se diffusa e perché conviene ragionare quache minuto in più sulla natura del nuovo algoritmo.

Cosa realmente gli utenti lamentano

Vale la pena porre attenzione a quanto effettivamente gli utenti lamentano: la scocciatura di atterrare su una pagina e non trovare facilmente il contenuto che stavano cercando.

A rompere le scatole agli utenti possono essere diversi elementi e di seguito ne elenco solo alcuni, ben lontana da essere una lista esaustiva:

  • la mancanza sulla pagina di quanto stavano cercando
    • in quanto rimosso
    • in quanto modificato
    • in quanto più o meno nascosto
  • la scarsa leggibilità/visibilità dei testi/contenuti cercati
    • per scelte infelici nei colori e negli stili dei testi
    • per scelte infelici nel layout del contenitore (es: cornici e box che fanno scattare il fenomeno del banner blindness)
  • la distanza tra l’inizio della pagina e il contenuto principale della risorsa

Evidenzio due cose: la prima è che il filtro appena introdotto da Google si focalizza su una sola delle tante cause che rendono difficile l’individuazione del contenuto, cioè la sua distanza dall’inizio della pagina.

La seconda è che la causa reale della frustrazione dell’utente è l’eccessiva distanza del contenuto dall’inizio della pagina, prescindendo da che cosa quella distanza è prodotta.

AdsenseChe cosa significa tutto ciò? Significa che la distanza che dà fastidio all’utente può essere creata da pubblicità ma anche da elementi di natura diversa: testate grafiche molto alte, menu di navigazione che rubano molto spazio, intestazioni testuali con font di dimensione poco contenute (come questo blog) e anche la solita spruzzata di annunci o banner: tutti elementi che di per sé non costituirebbero un problema ma che, sommati, possono spingere il contenuto principale della pagina oltre quella distanza giudicata eccessiva dall’utente.

Lo ripeto perché penso che sia importante: se pensate che il problema causato agli utenti sia prodotto esclusivamente dalle troppe pubblicità, allora state sprecando un’occasione per trarre dalla decisione di Google una regola generale, applicabile a tanti altri contesti oltre a quello, solo esemplificativo, dato da Google nel suo annuncio ufficiale.

Non è un caso che l’algoritmo sia stato ufficialmente chiamato di “Page Layout”: è quello il reale problema, non la presenza di eccessiva pubblicità, che di quel problema può essere la causa più comune ma non l’unica.

Approccio SEO di lungo termine

Invece di ridurre le indicazioni fornite da Google ad una regola semplicistica come “diminuire la quantità di pubblicità in cima alla pagina” io credo che si possa cogliere l’occasione per definire un approccio SEO più generale e in grado di gestire sia la capra del nuovo Layout Filter sia i cavoli delle strategie SEO di lungo termine.

Per esempio, visto che Google reagisce ai problemi causati dai webmaster agli utenti e visto che i suoi algoritmi prendono in esame sempre più elementi e caratteristiche dei siti web, un buon primo passo potrebbe essere quello di produrre, a monte, siti web usabili.

Oltre alle tante risorse sull’usabilità esistenti online, vi segnalo anche il libro “When Search Meets Web Usability” di Shari Thurow, che tratta il tema dell’usabilità nel contesto del search marketing, mostrando come le due discipline sono strettamente interconnesse.

Acquisite delle buone basi di usabilità, un secondo passo potrebbe essere quello di rileggere l’elenco che ho fornito sopra contenente alcune delle cause che potrebbero causare frustrazione all’utente e chiedersi se, oltre alla distanza del contenuto principale dall’inizio della pagina, i siti web da noi curati presentano altri elementi in grado di rompere le scatole alla gente.

Per esempio, che succede quando il contenuto principale della pagina è presente anche in cima ma visibile solo in forma ridotta? Valutando contesto per contesto, come si potrebbe comportare il motore di ricerca di fronte a quelle pagine che si aprono mostrando solo una piccola percentuale dei contenuti e che fanno apparire il resto (per esempio usando tecniche JavaScript) solo quando l’utente clicca su un link o pulsante “Mostra tutto“?

Anche per questa domanda, apparentemente tecnica, la migliore risposta può essere data facendosi scrupolo dell’esperienza dell’utente e domandandosi: sto rendendo più difficile l’uso del mio sito web agli utenti in genere e in particolar modo a quelli che arrivano dai motori di ricerca? Che strumenti posso usare per capire meglio come le persone si comportano sul mio sito (hint: ClickTale, che offre anche le utilissime attention heatmap)? Che cosa posso fare per migliorare ulteriormente la chiarezza e la facilità di fruizione dei contenuti?

Un esempio di interpretazione errata

Ho deciso di scrivere questo post perché ho letto su Google+ una discussione tra un utente che aveva un dubbio su come il nuovo filtro avrebbe funzionato e una seconda persona che gli ha fornito una risposta a dir poco opinabile.

La prima persona chiedeva se il nuovo algoritmo avrebbe penalizzato anche una situazione dove i banner in cima alla pagina puntavano a sezioni e pagine interne dello stesso sito, sostanzialmente chiedendo se a venire analizzato da Google era il layout o la natura commerciale di quanto stava in cima alla pagina.

La seconda persona ha risposto che, a suo parere, se i banner non puntavano all’esterno del sito non potevano essere considerati “pubblicità” e che quindi la prima persona non avrebbe dovuto preoccuparsi.

Ovviamente, come spiegavo sopra, il problema è legato alla bassa usabilità dei siti, non ad aspetti economici e si può solo sperare che la persona che aveva quel dubbio non subisca danni causati dal diffondersi di opinioni basate sull’interpretazione “ristretta” del provvedimento di Google.

La luna e il dito in chiave SEO

Come mai alla radice di questa decisione di Google sta la volontà di penalizzare alcuni siti con un grado di usabilità molto basso e invece osservo tante risorse sul web parlare esclusivamente di banner, pubblicità, denaro o temi politici come l’incoerenza di quel fantomatico singolo soggetto che tutti chiamano Google? Prescindendo da ciò che fa Google, perché sono così poche le persone che parlano degli interessi degli utenti?

A volte sembra di ritornare indietro di dieci anni, quando i SEO si chiedevano quale specifica implementazione tecnica per nascondere i contenuti veniva penalizzata da Google, piuttosto che tentare di risalire alla ragione che induceva il motore a voler penalizzare alcuni contenuti resi invisibili.

Quante occasioni di apprendimento trasformate in bar dello sport… 🙁

19 Responses to Perché il filtro anti-pubblicità di Google non è un filtro anti-pubblicità

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