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Questa opera di Enrico Altavilla è concessa in licenza sotto la Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported.
Tag Archives: Social
Lifetime value: da organico arrivano i clienti che spendono di più?
Sono stato colpito dai risultati di una ricerca svolta da Custora sul mercato USA.
La ricerca si chiama “E-Commerce Customer Acquisition Snapshot“, la versione che vi presento è valida per il secondo trimestre 2013 e, tra le altre cose, mostra i risultati di un calcolo del CLV (Customer Lifetime Value) per ciascuna tipologia di sorgente di traffico.
Si tratta di una ricerca molto grezza, la cui metodologia non è scevra da pecche che minano un po’ la fondatezza di certe conclusioni ma ve la voglio comunque presentare perché ritengo che, sottolineando le pecche e fornendo interpretazioni alternative dei dati, possa essere considerato un buon argomento di discussione davanti alla macchinetta del caffé.
Marketing Myopia applicato al search marketing
Un po’ di tempo fa mi sono imbattuto in un documento che molti markettari troveranno familiare ma che il sottoscritto sconosceva del tutto. Si trattava di “Marketing Myopia” (qui un PDF), scritto da Theodore Levitt e pubblicato su Harvard Business Review nel 1960.
Nell’articolo Levitt illustra le criticità che possono nascere quando un’azienda è così fortemente focalizzata sul proprio prodotto da perdere di vista i consumatori e le loro reali necessità.
Tale miopia non permette alle aziende di rendersi conto che i clienti potenziali non sono coloro potenzialmente interessati ad acquistare il loro prodotto bensì coloro che sono interessati a soddisfare un bisogno nel migliore dei modi. Tale miopia non consente alle imprese di cogliere nuove opportunità e di crescere.
Gli esempi proposti da Levitt vanno dal settore ferroviario, che non percepì sé stesso nel più ampio mercato dei trasporti, a quello cinematografico, che non percepì sé stesso nel più ampio mercato dell’intrattenimento.
A distanza di cinquanta anni le cose sono un po’ cambiate, ovviamente, ed oggi è impossibile trovare un film animato che non vada di pari passo con la produzione di giocattoli, merchandise, videogiochi, CD, giostre nei parchi a tema, suonerie per cellulari e qualunque altra cosa possa essere ricondotta al mondo dell’intrattenimento.
Per fare un esempio più attuale, è di pochi giorni fa la notizia che la più grande compagnia americana di wrestling, la WWE, ha deciso di bandire completamente il termine “wrestling” o “wrestler” dalla propria comunicazione per proporsi d’ora in poi come una più generica azienda di intrattenimento. Al calo di interesse registrato (già da anni) su uno specifico prodotto, la WWE ha reagito ridefinendo il proprio mercato di riferimento e, come conseguenza, il proprio prodotto.
La miopia nel search marketing
Nel 2008 mi son ritrovato a dover rivedere il mio approccio alla professione di SEO, dietro la spinta di due necessità:
- trovare il modo di far percepire di più ed applicare meglio le mie capacità
- abbracciare il fenomeno “social” in quanto ormai strettamente legato al SEM
Dei due, è il secondo punto che potrebbe rappresentare la criticità maggiore per quelle aziende o consulenti che nel corso degli anni si sono specializzati sul search mantenendo il proprio focus su questo canale.
La criticità non nasce tanto dal fatto che sia intrinsecamente pericolosa una specializzazione, quanto nel fatto che a imporre un’evoluzione del search marketing è il mercato, non limitato all’universo dei consumatori.
Gli stessi motori di ricerca, nell’ampliare le loro analisi del web, hanno da tempo incluso il monitoraggio di segnali social e sistemi per la personalizzazione delle ricerche. Volente o nolente, questi cambiamenti impongono una gestione del search più attenta alle tematiche sociali e più vicina ai comportamenti della gente.
Dalle aziende non ci si può aspettare una reazione spontanea e immediata ai mutamenti del mercato. Quando le agenzie del settore search passarono dalla fase spammosa alla fase seriosa non fu per lungimiranza o per maturità di una visione del mercato ma perché tra il 2004-2005 Google iniziò a fare il culo alle pagine doorway, imponendo a tutti un’evoluzione. Punto.
La stessa identica sensazione di costrizione l’avverto da qualche anno e diventa sempre maggiore: in piena epoca interattiva, su un web generato e valutato sempre più dagli utenti, un cambiamento del “prodotto search” è a mio parere inevitabile. Si tratta di un’inevitabilità che non presenta gli stessi elementi di repentinità di quando Google iniziò a penalizzare le doorway, ma rimane comunque un passo che molti comprenderanno essere necessario.
Per usare una metafora darwiniana, le condizioni ambientali sono cambiate e ci si aspetta che le specie si adattino. Fortunatamente per chi lavora nel search marketing, i mutamenti non sono ancora particolarmente repentini (ma occhio alle accelerazioni) e questo darà più tempo per adattarsi a quei soggetti molto specializzati, che in condizioni di maggiore repentinità dei cambiamenti di habitat sono solitamente i primi a soccombere.
Il settore del search marketing è destinato a focalizzarsi un po’ meno sul search ed un po’ più sul marketing: ogni atteggiamento contrario va considerato miope e un ostacolo alla crescita del proprio business.
Cambiar pelle è difficile
Tre anni fa non avrei mai immaginato che avrei smanettato con le pubblicità di Facebook, sviluppato tool per Twitter, monitorato in tempo reale le ricerche degli italiani su Google o analizzato il buzz online, eppure queste attività sono arrivate come semplice conseguenza di un cambiamento della società e di un ampliamento degli interessi del sottoscritto.
Esistono però almeno tre grandi limiti che, in base alle mie osservazioni, rallentano tale evoluzione, che è sia culturale sia di business:
- La rigidità delle strutture già esistenti
- Il mito della specializzazione
- L’amor proprio
Di fronte alla necessità di cambiare bisogna fare i conti con la propria natura. Se per un consulente freelance la libertà di scelta può tradursi facilmente in una modifica della propria professione, lo stesso non si può dire per le aziende, che possiedono strutture ben definite e più difficili da modificare.
Per le aziende il cambiamento è più difficile se la struttura è stata cucita in maniera molto aderente attorno ad uno specifico prodotto, ai ruoli necessari ad erogarlo e ai flussi necessari a gestirne la produzione. Se prodotto e flussi possono essere ridefiniti con una cerca agevolezza, una ridefinizione dei ruoli deve fare i conti con l’organigramma esistente e con le persone assunte.
Il problema è particolarmente critico perché un’evoluzione del search che abbracci il social deve passare attraverso l’acquisizione di nuove competenze (anche incamerabili attraverso nuove assunzioni) e può comportare la parziale inadeguatezza dei dipendenti preesistenti.
Perché? Perché i migliori SEO che conosco sono per costituzione dei nerd ipercritici, a volte anche rompicoglioni olimpionici; tali elementi caratteriali sono funzionali a trovare errori da correggere (questo fa il SEO) ma che siano compatibili con l’universo social è tutto da dimostrare…
Esiste anche una seconda inadeguatezza, quella relativa ad altri ruoli necessari a mandare avanti la baracca: reparto vendite e accounting. Ma se trattassi adesso questo aspetto rischierei di uscire fuori discorso e di invadere quello ben più ampio su cattedrali e bazaar. Forse in futuro scriverò qualche considerazione anche su questo aspetto.
Il secondo limite è quello del mito della specializzazione. Si noti: non il fatto che un’azienda o un consulente siano specializzati quanto il fatto che alla specializzazione venga assegnato un valore talmente alto da ritenere questa caratteristica irrinunciabile o non modificabile. E’ questa visione che a mio giudizio costituisce un limite alla crescita in condizioni di trasformazione di un mercato.
Ho già indicato il danno che una specializzazione estrema produce in una fase di cambiamenti repentini del mercato: tali soggetti sono i primi a farne le spese. Vale però la pena di specificare che per le aziende o, più in genere, per i gruppi di professionisti è possibile mantenere la propria specializzazione su un settore senza rinunciare ad ampliamenti delle competenze su nuove discipline. L’importante è investire nuove risorse (personale, tempo) nell’acquisizione delle nuove competenze senza sottrarne al search.
Il terzo limite è quello dell’amor proprio, sul quale mi posso esprimere solo limitatamente allo scenario italiano, non avendo grande visibilità di quanto avviene altrove.
Mi è capitato di osservare più volte dei SEO che hanno fatto della propria scelta professionale una scelta filosofica. In parte, questo fenomeno è legato alla psicologia dei SEO, sulla cui ipercritica mi sono già espresso qualche paragrafo fa. Altre volte dipende da una semplice mancanza di interessi. Altre volte ancora è la conseguenza di un atteggiamento elitario, che per anni ha remato contro una reale integrazione tra SEO e SEA, rinunciando ai benefici che da essa possono derivare.
Lo stesso amor proprio, la stessa miopia, rischia adesso di costituire un limite ad accogliere le nuove evoluzioni che il search marketing sta affrontando. Una eccessiva gestione a compartimenti stagni, una fossilizzazione nelle stesse attività svolte negli anni, un disinteresse a priori nei confronti di fenomeni che influenzeranno sempre più il comportamento delle stesse persone che fanno ricerche sui motori, rischia di trasformare eccellenti professionisti SEO in eremiti fuori dai giochi.
Non c’è utilità nel search marketing se non viene integrato nelle più ampie strategie di marketing delle aziende; allo stesso modo non c’è utilità per i professionisti SEO se non comprenderanno che il proprio ruolo è funzionale ad obiettivi che si raggiungono attraverso la collaborazione tra canali diversi, che a volte possono anche convergere, come sta avvenendo in parte tra search e social.
Essere pronti ai cambiamenti già in corso significa semplicemente trovare una formula che concili passione ed esigenze, predisposizioni ed obiettivi dei clienti, esperienze acquisite e crescita culturale.
Questo scopo non implica dover sovvertire la propria natura professionale, ma implica che il timore del cambiamento deve essere messo da parte e che ci si muova per ottenere le migliori condizioni per affrontare le nuove sfide.